Il caso trae origine dalla domanda con cui l’attore chiedeva al giudice di dichiarare lo scioglimento del vincolo contrattuale conseguente ad un preliminare di compravendita immobiliare concluso con i venditori in data 03.12.2004.

Parte attrice chiedeva inoltre che, ai sensi dell’art. 1385 c.c., comma 2, controparte fosse condannata al pagamento del doppio della caparra confirmatoria versatale all’atto di stipula del succitato negozio, oltre al risarcimento del maggior danno.

A sostegno della propria pretesa, l’attore adduceva di aver formulato, in data 02.12.2004, per il tramite di un’agenzia immobiliare, una proposta irrevocabile d’acquisto avente ad oggetto un immobile, di proprietà dei convenuti, versando, all’atto della sottoscrizione, l’importo di Euro 1.000,00, a titolo di caparra confirmatoria.

Il fatto strano stava nell’ulteriore impegno assunto dall’attore, a stipulare un ulteriore preliminare d’acquisto entro 10 giorni dall’eventuale accettazione dell’originaria proposta da parte dei convenuti, la cui volontà di adesione al complesso regolamento contrattuale veniva tempestivamente manifestata in data 03.12.2004.

In forza dell’accordo raggiunto, quindi, le parti contraenti si obbligavano a dar seguito all’operazione negoziale pattuita, individuando quale termine non essenziale per il successivo adempimento – la stipula del preliminare – la data del 13.12.2004.

Decorso inutilmente tale termine per non aver il promissario acquirente ottenuto, entro la scadenza prefissata, l’erogazione del mutuo bancario richiesto, in data 24.01.2005 i promittenti venditori comunicavano la propria volontà di recedere dal negozio perfezionato e, ritenendosi svincolati dalle obbligazioni assunte, vendevano a terzi il proprio immobile.

Parte convenuta si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda avversaria per inesistenza di un valido vincolo contrattuale. Assumeva infatti che non potesse ritenersi valido un negozio perfezionato in conseguenza di un’accettazione di una proposta finalizzata soltanto a vincolare le parti alla stipula di un ulteriore negozio – il preliminare – con effetti obbligatori.

La stessa chiedeva inoltre – in ragione dell’inadempimento imputabile alla l’altra parte, consistente nel mancato rispetto del termine fissato per la stipula del preliminare – che il giudice dichiarasse la legittimità del recesso operato ex art. 1385 c.c., con conseguente diritto alla ritenzione della caparra versatale al momento della sottoscrizione della proposta.

Il giudice di primo grado respingeva la domanda attorea, riconoscendo l’esistenza di un valido vincolo contrattuale tra le parti. Dichiarava pertanto legittimo il recesso esercitato ex art. 1385 c.c. dai promittenti alienanti, con conseguente diritto di trattenere la caparra confirmatoria originariamente versata dal promissario acquirente, per essersi quest’ultimo reso inadempiente all’obbligo, derivante dall’originaria proposta contrattuale, di addivenire alla stipula del negozio preliminare nei termini pattuiti.

Successivamente, il giudice d’appello riformava la sentenza del Tribunale, ritenendo illegittimo il recesso esercitato dai promittenti venditori, i quali non avrebbero ottemperato alle condizioni indispensabili per l’esercizio di tale diritto potestativo.

In particolare, la Corte d’Appello osservava che la condotta dei promittenti venditori non potesse né integrare una forma di risoluzione stragiudiziale per mancato rispetto di un termine essenziale – non essendo tale quello previsto nell’originaria proposta contrattuale – né, tantomeno, essere inteso come un legittimo esercizio del diritto di recesso, non ravvisandosi il requisito della gravità dell’inadempimento, condizione cui è subordinato l’esercizio di tale facoltà.

In ragione di quanto osservato, la Corte d’Appello riformava la sentenza impugnata, riconoscendo la legittimità del recesso operato dal promissario acquirente, con conseguente diritto dello stesso a ricevere il doppio della caparra versata, stante l’inadempimento imputabile ai promittenti venditori.

Su ricorso di quest’ultimi, la Corte di Cassazione veniva chiamata ad esaminare la vicenda processuale e, con provvedimento n. 20532 del 29.09.2020, confermava la regolarità della pronuncia della corte d’appello, stabilendo la seguente linea di principio: “La caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c. ha la funzione di liquidare convenzionalmente il danno da inadempimento in favore della parte non inadempiente che intenda esercitare il potere di recesso conferitole “ex lege”, sicché, ove ciò avvenga, essa è legittimata a ritenere la caparra ricevuta ovvero ad esigere il doppio di quella versata; qualora, invece, detta parte preferisca agire per la risoluzione ovvero l’esecuzione del contratto, il diritto al risarcimento del danno va provato nell'”an” e nel “quantum. Esiste, pertanto, un’incompatibilità strutturale, sotto il profilo risarcitorio, tra la facoltà di recesso ex art. 1385 c.c. e la domanda di risoluzione per inadempimento, nonostante i due strumenti di tutela citati siano accomunati dal presupposto dell’inadempimento contrattuale.

La Corte rileva inoltre che: “La disciplina dettata dell’art. 1385 c.c., comma 2, in tema di recesso per inadempimento nell’ipotesi in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l’inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente. Pertanto nell’indagine sull’inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se e a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio (Cassazione civile sez. II, 08/08/2019, n. 21209)”.

Nel caso di specie, sul presupposto che l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto fossero riservati al giudice del merito e considerato che la Corte d’Appello aveva riconosciuto la legittimità dell’esercizio del diritto di recesso ex art. 1385 c.c da parte del promissario acquirente, la Corte di Cassazione si è limitata a pronunciare l’infondatezza della doglianza della ricorrente volta a censurare la qualificazione offerta dalla corte di merito, che, nell’interpretazione della domanda del promittente acquirente, ancorché dallo stesso qualificata come domanda di risoluzione del contratto lo stesso aveva chiesto la condanna di controparte alla restituzione del doppio della caparra confirmatoria, in tal modo esercitando il diritto di recesso disciplinato dall’art 1385 c.c..