L’inerzia del locatore può comportargli la rinuncia ai canoni
Con la sentenza del 14 giugno 2021 n. 16743, La Corte di Cassazione ha ritenuto che il comportamento del locatore, titolare del credito rappresentato dai canoni locatizi, che non abbia mai preteso il pagamento, sin dall’origine del rapporto, può generare un affidamento sulla rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del conduttore.
Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento costituisce un abuso del diritto.
IL CASO
Nel 2014 una società agisce in via monitoria per recuperare il proprio credito costituito dai canoni locatizi non corrisposti dal 2004 al 2013 per l’importo di oltre 240 mila euro.
Il contratto di locazione risaliva al 2004, solo nel 2011 era stato formalizzato uno sfratto, tuttavia, mai iscritto a ruolo e, infine, nel 2014 il creditore aveva agito con un ricorso per decreto ingiuntivo.
Il conduttore si oppone e sostiene la sussistenza di un accordo per cui il godimento dell’immobile sarebbe stato a titolo gratuito, nonostante l’esistenza di un contratto di locazione registrato.
La Corte d’appello, per quanto qui di interesse, ha ritenuto efficace il contratto di locazione ma ha considerato significativa la circostanza che, per anni, nessun canone fosse stato richiesto al conduttore (ossia dal 2004 al 2011). Pertanto, in virtù del principio di tutela dell’affidamento e della buona fede nell’esecuzione dei contratti, secondo il giudice di merito, sono dovuti i canoni solo dalla prima richiesta di pagamento (2011) e non quelli pregressi.
La Corte di Cassazione affronta la questione partendo da tre principi consolidati in giurisprudenza, quali: la buona fede nell’esecuzione del contratto, l’abuso del diritto e la rinuncia tacita all’esercizio del diritto.
L’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto impone il rispetto dell’affidamento di controparte, in caso contrario viene violato il canone di solidarietà. L’abuso del diritto costituisce una particolare violazione dell’obbligo di buona fede contrattuale ed è rilevabile d’ufficio (senza necessità di eccezione di parte). La clausola generale di buona fede e correttezza è applicabile sia nei rapporti obbligatori (art. 1175 c.c.) che nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e si sostanzia “nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte […]. Essa, pertanto, obbliga, da un lato, a salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche l’inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse” (Cass. 10182/2009; Cass. 5240/2004; Cass. 1078/1999). Inoltre, il principio di buona fede rientra negli inderogabili doveri di solidarietà sociale previsti dalla Costituzione (art. 2).
Pertanto, ciascuna parte deve operare in modo da tutelare anche gli interessi dell’altra a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi in tal senso (Cass. 4057/2021; Cass. 24691/2020; Cass. 12310/1999).
In altre parole, la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un dovere di solidarietà che impone a ciascuna parte di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra,
con l’unico limite che il comportamento (conforme a buona fede) non procuri a carico della parte un apprezzabile sacrificio.
Secondo la giurisprudenza, ricorre l’abuso del diritto quando il soggetto esercita (il diritto) in contrasto con il dovere di correttezza e buona fede, cagionando un sacrificio sproporzionato alla controparte contrattuale, nel perseguire un risultato diverso e ulteriore rispetto a quello per cui tale diritto è conferito.
La Suprema Corte rileva come il ritardo nell’esercizio del diritto non costituisca automaticamente un abuso del diritto. Tuttavia, l’ipotesi in cui l’inerzia rappresenti la conseguenza fattuale di una rinuncia tacita all’esercizio del diritto, determina una manifestazione di “volontà abdicativa” del titolare del diritto. In altre parole, si tratta di una rinuncia operata per facta concludentia.
LA DECISIONE
Nel caso di specie, secondo la Cassazione, “l’esercizio repentino del diritto installatosi in una circostanziata situazione di maturato affidamento della sua intervenuta abdicazione, correlata a un assetto di interessi pregresso, ha integrato un abuso del diritto […] e ha comportato, altresì, la negazione di tutela dell’interesse di controparte in considerazione di sopravvenute circostanze nelle quali il giudice di merito illustrando ciò con adeguata motivazione – ha riscontrato un conflitto tra le parti determinatosi per altre questioni, pacificamente non collegate al contratto”.
Ciò premesso, i diritti disponibili possono costituire oggetto di rinuncia anche se inseriti all’interno di un contratto. La rinuncia può avvenire con fatti concludenti. Indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto (o meno), l’improvviso esercizio del diritto, dopo una protratta inerzia, può costituire una violazione del principio di affidamento circa la sua abdicazione.
Secondo la Cassazione, la condotta del creditore, che non riscuote per 7 anni il canone locatizio, induce il conduttore a ritenere che vi sia stata una rinuncia a far valere il diritto. Quanto detto riguarda la fase esecutiva del contratto e non inerisce alla sua “esistenza”. Infatti, il contratto non è risolto ed è in grado di “riprendere vita”, com’è accaduto nella fattispecie de qua.
Quindi, l’improvvisa richiesta di adempimento da parte del creditore va valutata alla stregua dell’esercizio abusivo del diritto. Deve, altresì, considerarsi il contesto di riferimento: ossia una società con una forte componente personale, in cui i soci sono componenti della famiglia e in cui la condotta sociale è mutata non appena il socio (conduttore) è uscito dalla società e i rapporti con il socio di riferimento (il padre) si sono incrinati. I giudici di legittimità affermano che:
“un credito nascente da un rapporto ad esecuzione continuata, mai preteso sin dall’origine del rapporto negoziale, anche se formalmente menzionato nelle scritture contabili di una società a responsabilità limitata per più esercizi, in assenza di altri indici di segno contrario, possa ugualmente costituire un fattore di generazione di un affidamento di oggettiva rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del socio. Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento, indipendentemente dalla presenza di indici idonei a denotare una volontà di rinuncia del medesimo, se corrispondente a una situazione di palese conflittualità tra socio (allora ex socio) e gli altri soci, non giustificata da altri fattori, costituisce un abuso del diritto ove riveli l’intento di arrecare un ingiustificato nocumento”
la Corte di Cassazione rigetta il ricorso (principale e incidentale) ed enuncia il seguente principio di diritto:
“il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del “neminem laedere”; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto”.
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