L’appaltatore deve dimostrare la congruità del compenso richiesto
L’appaltatore che chieda il pagamento del proprio compenso ha l’onere di dimostrare la congruità della somma, con riferimento alla natura, all’entità e alla consistenza delle opere, non costituendo idonee prove dell’ammontare del credito le fatture emesse dal medesimo appaltatore, poiché si tratta di documenti fiscali provenienti dalla parte stessa (massima ufficiale).
Lo ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 33575 del 11.11.2021
IL CASO
Il Tribunale, con sentenza del 29/3/2018, ritenuto provato il pagamento di Euro 8.000,00, in parziale accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da M.C., condannava quest’ultimo al pagamento, in favore di una società di costruzioni, della somma di Euro 28.300,00, quale residuo corrispettivo per i lavori dalla stessa eseguiti nell’immobile oggetto d’intervento.
La Corte d’Appello, accoglieva il ricorso del proprietario dell’immobile revocando il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti.
In particolare, il giudice di secondo grado evidenziava come fosse pacifico che tra le parti non era stato perfezionato un contratto per iscritto e che spettasse all’appaltatore l’onere di provare l’esistenza del titolo e l’oggetto dello stesso.
Sul committente gravava soltanto l’onere di provare l’adempimento. La Corte riteneva che, alla luce delle prove raccolte, “l’unico dato certo fosse costituito dall’avvenuto conferimento di un incarico per la realizzazione di una tettoia e che invece fosse stato realizzato un “locale chiuso“.
Tuttavia, evidenziava il giudice d’appello, non erano noti “i materiali nè le lavorazioni esattamente eseguite, per qualità e quantità” cosicchè non fosse possibile “procedere ad una valutazione del corrispettivo da riconoscersi, che, nel contratto di appalto, ex art. 1657 c.c. può essere determinato a posteriori”, risultando a tal fine “ostativo… il riscontro della qualità e quantità dell’opera“.
(…) “nulla ha il requisito della certezza; non la quantità e qualità della tinteggiatura,… e neppure l’estensione dei lavori di pavimentazione ad opera del piastrellatore…“. La natura complessiva delle opere non veniva dimostrata nemmeno per testimoni, “non presenti per tutta la durata dei lavori“.
Pertanto, la Corte d’Appello respingeva l’appello così concludendo: “La prova fornita dall’appaltatore, che non ha depositato una disamina analitica che giustificasse la somma richiesta, è, dunque, del tutto carente, non potendosi concedere alcun valore probatorio alla fattura in atti, per cui la sua richiesta di pagamento dev’essere rigettata“.
LA DECISIONE
La S.C., sottolinea il principio secondo cui “L’appaltatore che chieda il pagamento del proprio compenso ha, in effetti, l’onere di fornire la prova della congruità di tale somma, alla stregua della natura, dell’entità e della consistenza delle opere, non costituendo idonee prove dell’ammontare del credito le fatture emesse dall’appaltatore, trattandosi di documenti di natura fiscale provenienti dalla stessa parte (Cass. n. 10860 del 2007).”
“Il potere, conferito al giudice dall’art. 1657 c.c., di determinare il prezzo dell’appalto“, rileva la Corte di Cassazione, “è, pertanto, esercitabile solo ove non si controverta sulle opere eseguite dall’appaltatore: allorquando, invece, il contrasto riguardi anche tale aspetto del rapporto, incombe sull’attore l’onere di fornire la prova dell’entità e della consistenza di dette opere, non potendo il giudice stabilire il prezzo di cose indeterminate, nè, d’altra parte, offrire all’attore l’occasione di sottrarsi al preciso onere probatorio che lo riguarda (Cass. n. 17959 del 2016).”
“Tuttavia, una volta che, come ha ritenuto dalla corte d’appello, le opere eseguite dall’appaltatore siano state, sia pur in parte, dimostrate in giudizio, il giudice di merito, una volta accertato che le parti non avevano determinato la misura del corrispettivo dovuto all’appaltatore nè il modo di determinarlo, non può, evidentemente, sottrarsi al proprio dovere di determinare il corrispettivo della misura conseguentemente dovuta, avendo riguardo, a norma dell’art. 1657 c.c., alle tariffe esistenti o agli usi, ovvero, in mancanza, procedendo direttamente alla relativa determinazione.
Su tale presupposto la Corte di Cassazione ha integralmente accolto il ricorso e cassato, con rinvio, la sentenza d’appello.
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