La rinuncia all’eredità è un argomento molto dibattuto e spesso foriero di errori interpretativi.

Argomento di particolare interesse risulta essere quello sugli effetti del possesso di uno o più beni dell’asse ereditario, sull’accettazione dell’eredità.

In linea di principio, il chiamato all’eredità che rimanga, a qualsiasi titolo, nel possesso di beni ereditari, deve farne l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione.

L’art. 485 c.c., al secondo comma, prevede infatti che, “trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice“. In tal caso, la conseguenza è che il patrimonio dell’erede si confonderà con quello del defunto e gli eventuali creditori di quest’ultimo potranno soddisfare i propri crediti aggredendo anche i beni personali dell’erede.
Tuttavia, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo, un’eccezione pare potersi individuare nel caso in cui il coniuge vedovo, continui ad abitare la residenza familiare.

Invero, con sentenza n. 23406 del 16.11.2015 la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che “Poiché la permanenza nell’abitazione familiare da parte del coniuge superstite è qualificabile come esercizio del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano quale legato ex lege art. 540 c.c., va escluso che la stessa sia qualificabile come possesso che comporta l’accettazione tacita dell’eredità“.