Con l’ordinanza del 15.12.2020, il Tribunale di Roma afferma che un atto amministrativo, quale il D.P.C.M., non avrebbe potuto imporre limitazioni a diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti.

Poichè nessuna fonte costituzionale o avente forza di legge ordinaria attribuisce al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario, la dichiarazione di emergenza adottata dal Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020 dovrebbe ritenersi illegittima, secondo la pronuncia del giudice capitolino.

Ne consegue che anche tutti gli atti amministrativi conseguenti dovrebbero essere ritenuti illegittimi, ovvero i D.P.C.M. che hanno limitato ai cittadini l’esercizio di diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti.

Chiaramente, l’analisi del Tribunale di Roma, seppur degna di nota, non ha alcun effetto immediato sui provvedimenti approvati dal Governo Conte, non essendo tale giudice competente a dichiarare l’incostituzionalità dei decreti del Presidente del Consiglio; peraltro, allo stato non ci risulta sia stata rimessa tale questione alla Corte Costituzionale.

Tanto premesso, la pronuncia nasce dal contrasto scaturito tra una società locatrice e una società conduttrice, in merito al rapporto di locazione ad uso commerciale. La prima aveva chiesto di convalidare l’intimazione di sfratto per morosità, non avendo ricevuto il regolare pagamento dei canoni d’affitto.

Parte intimata si era opposta alla richiesta di convalida di sfratto, evidenziando come, a causa della grave crisi scaturita dalla pandemia, aveva subito una contrazione delle vendite rispetto all’anno precedente, risultando perciò impossibilitata ad onorare l’elevato corrispettivo convenuto.

Tale situazione emergenziale, sosteneva parte conduttrice, avrebbe dunque comportato un’alterazione del rapporto contrattuale e l’impossibilità di eseguirlo o, comunque, di beneficiare pienamente del godimento del bene, con conseguente alterazione del sinallagma contrattuale, la cui rilevanza, al fine della revisione delle condizioni contrattuali, veniva invocata in giudizio.

Ebbene, secondo il tribunale romano, l’esistenza di un’emergenza sanitaria non è di per sé condizione intrinsecamente idonea ad inibire, in termini assoluti, l’esercizio dell’attività commerciale, diversamente, per esempio, dal crollo dell’immobile a seguito di un terremoto o dal crollo dell’unica via di accesso all’immobile, a seguito di calamità naturale.

Dunque, in via astratta, ogni attività umana avrebbe potuto continuare a svolgersi regolarmente anche in periodo di emergenza sanitaria, con la sola differenza che il soggetto interessato avrebbe corso il rischio di contrarre il virus.

Si legge nel provvedimento come “la limitazione ai diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti che si è verificata nel periodo di emergenza sanitaria è dovuta, quindi, non alla intrinseca diffusione pandemica di un virus ex se, ma alla adozione esterna dei provvedimenti di varia natura (normativi ed amministrativi) i quali, sul presupposto della esistenza di una emergenza sanitaria, hanno compresso o addirittura eliminato alcune tra le libertà fondamentali dell’Uomo, così come riconosciute sia dalla Carta Costituzionale che dalle Convenzioni Internazionali“.

A dimostrazione di ciò, “è notorio che le suddette libertà e diritti fondamentali siano stati incisi con modalità ed intensità diverse nei vari Paesi del globo terrestre ed alcuni Stati, come la Svezia, addirittura, si siano limitati a indicazioni e suggerimenti, senza imporre limiti al godimento dei diritti, quantomeno nel periodo iniziale“.

Su tali basi si innesta il ragionamento del Tribunale di Roma, il quale sottolinea come le libertà fondamentali degli individui, nel nostro paese, siano state compresse attraverso lo strumento del D.P.C.M., atto di natura amministrativa e non normativa, che viene criticato sotto diversi profili. In primis, nell’ordinanza si sostiene l’inidoneità di tali atti a comprimere i diritti fondamentali e lo fa richiamando anche altra giurisprudenza, come una recente sentenza del Giudice di Pace di Frosinone, la quale ritiene che un D.P.C.M. non avendo valore e forza di legge non potrebbe porre limitazioni a libertà costituzionali garantite.

Ancora, nell’ordinanza si afferma come “il rischio sanitario non sia riconducibile ad alcuna delle ipotesi di cui all’art. 7, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 1/18 in base al quale è stato dichiarato lo stato di emergenza dal Governo e, pertanto, non essendo previsto alcun potere del Consiglio dei Ministri di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria, ne conseguirebbe “la illegittimità di tutti gli atti amministrativi conseguenti“.

Nel sottolineare l’illegittimità dei D.P.C.M., il Tribunale adduce anche un ricorrente difetto di motivazione precisando come tutti provvedimenti amministrativi debbano essere motivati ai sensi dell’art. 3 legge 241/1990, obbligo al quale non sarebbero sottratti neppure i D.P.C.M.

Tuttavia, rileva il magistrato, nel corpo dei provvedimenti relativi all’emergenza epidemiologica, “la motivazione è redatta in massima parte con la peculiare tecnica della motivazione per relationem, cioè con rinvio ad altri atti amministrativi e, in particolare (ma non solo), ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS)“. Tecnica in astratto ammessa e riconosciuta dalla giurisprudenza, ma che richiede (eccettuato il caso di attività strettamente vincolata) che gli atti cui si faccia riferimento siano resi disponibili o comunque siano conoscibili.

Diversamente, i verbali del CTS risultavano classificati come “riservati” e solo successivamente venivano periodicamente pubblicati sul sito della Protezione Civile, ma con un ritardo tale da non consentire l’attivazione di una tutela giurisdizionale, in quanto troppo prossimi alla scadenza della efficacia.
Tale iter motivatorio, “del tutto generico” è quindi, ad avviso del Tribunale di Roma, “insufficiente a rispettare i parametri richiesti per ogni provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 3 legge 241/1990, con conseguente illegittimità del provvedimento stesso, nel suo complesso: è indubbio infatti che il complessivo risultato del D.P.C.M. sulla limitazione delle libertà e dei diritti fondamentali sia il frutto del combinato disposto e del coordinato risultato delle varie e singole disposizioni“.

In particolare, secondo il Tribunale, non essendo l’obbligo di motivazione sufficientemente adempiuto, i provvedimenti che si sono susseguiti sono dunque illegittimi per violazione di legge (art. 3 legge 241/1990), senza dimenticare che la motivazione, inoltre, è elemento indispensabile per consentire anche il sindacato su possibili vizi di c.d. eccesso di potere

Il giudice della capitale, infine, sottolinea che “alcune delle gravi compressioni dei diritti costituzionalmente e internazionalmente garantiti, peraltro, sono contraddittorie con le disposizioni degli stessi D.P.C.M. adottati successivamente sulla materia, nei quali molte prescrizioni sono state sostanzialmente modificate“.

Dalla lettura dei verbali delle sedute del CTS che si sono succedute “non emerge con chiarezza quale sia la logica della scelta fortemente compressiva operata dalla P.A.“, mentre l’opzione dell’amministrazione non appare univocamente determinata dalla situazione di fatto sottostante e, talvolta, appare addirittura contraddittoria, con ciò determinando ulteriori possibili vizi di eccesso di potere per illogicità (cfr. sul punto, TAR Lazio ordinanza n. 7468/2020)