Commento intimidatorio: è stalking pubblicarlo anche solo sul proprio “profilo” Facebook
Il delitto di atti persecutori (cd. stalking) può configurarsi anche attraverso interventi sulle proprie “pagine social”, potendosi realizzare anche attraverso tale utilizzo di internet delle condotte idonee ad intimidire altri con minacce o molestie ed inducendo nelle stesse quella condizione di ansia e timore caratterizzante la fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. Lo ha stabilito la IV sezione della Corte di Cassazione penale con la sentenza n. 19363 del 17.05.2021.
IL CASO
Veniva tratto a giudizio dinanzi al Tribunale ordinario un individuo accusato dei reati di atti persecutori e diffamazione.
L’imputato aveva minacciato e molestato attraverso “post” sul proprio profilo Facebook il sindaco e il presidente del consiglio comunale di una cittadina, ingenerando negli stessi un perdurante stato d’ansia e un fondato timore per l’incolumità propria e dei familiari e costringendoli a mutare le abitudini di vita, oltre ad offenderne la reputazione.
Il Tribunale aveva ritenuto l’imputato responsabile dei reati a lui ascritti e, successivamente, la Corte d’Appello, adita in seguito ad impugnazione della pronuncia di prime cure, aveva confermato la condanna.
Con il ricorso in cassazione l’imputato articolava in quattro motivi le proprie censure.
Con un primo motivo veniva contestata la configurabilità del delitto di atti persecutori attraverso articoli di giornale o interventi di altro genere pubblicati su internet, sottolineando come la Suprema Corte si fosse già pronunciata in tal senso con la sentenza Cass. pen. sez. V, n. 48007 del 19/10/2016 e che le condotte poste in essere dall’imputato non potessero essere equiparate a condotte di concreta molestia, quali ad esempio le minacce proferite di persona o i pedinamenti, con ciò essendosi realizzata una violazione di legge.
Con un secondo motivo si censurava la valutazione del compendio probatorio deducendo il vizio di violazione di legge, facendo particolare riferimento al fatto che le persone offese avevano dichiarato più volte pubblicamente di non essere state intimorite dalle dichiarazioni postate dall’imputato.
Con un terzo motivo, in relazione al delitto di diffamazione, il ricorrente lamentava sempre il vizio di violazione di legge per non essere stata riconosciuta l’esimente del diritto di critica.
Da ultimo, con il quarto motivo di gravame veniva dedotta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine ai criteri utilizzati per la determinazione della pena.
LA DECISIONE
Con la recentissima sentenza n. 19363 del 17.05.2021 la Corte di Cassazione ha respinto tutti i motivi del ricorso, approfondendo la tematica della configurabilità del reato di atti persecutori attraverso l’utilizzo di strumenti telematici non direttamente invasivi della sfera di riservatezza della vittima.
La S.C. ha chiarito come non sia tanto rilevante lo strumento utilizzato, quanto l’oggettiva capacità della condotta di turbare la “serenità di vita” della persona offesa.
In particolare, i giudici di legittimità si sono soffermati sull’analisi dei primi due motivi di gravame.
Anzitutto, la Suprema Corte ha evidenziato come il contenuto della sentenza n. 48007/2016, citata dall’imputato a sostegno della tesi secondo cui il delitto di atti persecutori non potrebbe configurarsi attraverso l’utilizzo di internet, sia stato del tutto travisato.
La citata sentenza aveva stabilito che la mera pubblicazione, ancorché reiterata, di articoli giornalistici di contenuto diffamatorio non integrasse il delitto di atti persecutori, principio poi ribadito anche da una sentenza successiva relativa, in particolare, a “post” pubblicati su una pagina Facebook (Cass. pen. sez. V, n. 34512 del 3/11/2020).
Invero, in entrambi i casi sopra indicati i giudici di legittimità avevano escluso la configurabilità del reato di atti persecutori non in ragione dello strumento utilizzato, ma perché il contenuto degli articoli/post risultava solo diffamatorio, non anche minaccioso ed idoneo a determinare uno stato di ansia o timore nelle vittime.
Chiarito questo aspetto la Corte di Cassazione ha sottolineato come, viceversa, vi siano plurime pronunce della giurisprudenza di legittimità che riconoscono la configurabilità del reato di cui all’art. 612-bis c.p. anche attraverso lo strumento di internet e, più precisamente, attraverso il ricorso ai social network.
In particolare, sono stati richiamati i principi sanciti da due sentenze:
– “integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di “sms” e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti “social network” (ad esempio “facebook”), nonchè la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Cass. pen., Sez. VI, n. 32404 del 16/7/2010);
– integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori la condotta di chi reiteratamente pubblica sui “social network” foto o messaggi aventi contenuto denigratorio della persona offesa con riferimenti alla sfera della sua libertà sentimentale e sessuale in violazione del suo diritto alla riservatezza (Cass. pen., Sez. V, n. 26049 del 1/3/2019)”.
Il Giudice di legittimità ha chiarito che non sia rilevante il mezzo attraverso il quale si diffonde la comunicazione, ai fini della sussistenza del delitto di atti persecutori, ma, piuttosto, il contenuto della stessa che deve presentare connotazioni chiaramente vessatorie e minacciose, nonché tali da ingenerare quello stato di ansia richiesto dall’art 612-bis c.p..
“Del resto,” – motiva la Corte – “lo stesso legislatore aveva modificato – con il D.L. n. 14 agosto 2013, n. 93, art. 1, comma 3, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119 – l’art. 612 bis c.p., comma 2, introducendovi l’ipotesi di aggravamento della pena quando il fatto sia commesso “attraverso strumenti informatici o telematici”, così, per un verso, chiarendo come il delitto possa consumarsi anche attraverso tali modalità di comunicazione e, per l’altro, affermando che, l’utilizzo delle stesse, doveva considerarsi connotato da un maggior disvalore sociale dell’atto persecutorio.”
Ciò premesso, la Suprema Corte ha approfondito un’altra tematica interessante, ovvero le differenze tra le comunicazioni inviate al “profilo” del destinatario e quelle pubblicate sul proprio “profilo”, come è avvenuto nel caso in esame.
Sul punto ha precisato che, quando il messaggio sia inviato al “profilo” della persona offesa, in nulla tale comunicazione diverge da quelle veicolate con altro mezzo di diffusione (telefono o sistemi di messaggistica), e, in questo caso, si realizza una diretta invasione della sfera privata altrui.
Invece, se il messaggio, pur rivolto ad una determinata persona, sia pubblicato sul profilo dell’imputato, sarà necessario verificare la conoscibilità dello stesso per accertare se possa configurarsi il reato di atti persecutori.
Al fine della valutazione di conoscibilità sarà necessario verificare se il “profilo” sia o meno ampiamente accessibile, giacché solo in tale ipotesi sarà legittimo dedurre che le vittime delle condotte persecutorie ne siano venute a conoscenza e potrà configurarsi il reato di cui all’art. 612-bis c.p.
Peraltro, i giudici hanno sottolineato altresì che, se anche le persone offese non fossero venute a diretta conoscenza dei “post” minacciosi o molesti, potrebbe comunque configurarsi il reato in esame in forza del costante orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione (da ultimo Cass. pen., Sez. V, n. 38387 del 01.03.2017) secondo cui, “ai fini della configurabilità del delitto di minaccia, non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell’agente di produrre l’effetto intimidatorio.”
Tale principio di diritto, secondo i giudici di legittimità, deve ritenersi applicabile anche alle minacce che costituiscano l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori.
Infine, la Suprema Corte ha precisato che il semplice fatto che le persone offese si siano dichiarate in pubblico per nulla intimidite non vale ad escludere la sussistenza del reato di cui all’art. 612-bis c.p., ritenendo ragionevole che tali dichiarazioni fossero finalizzate solo a rassicurare la cittadinanza sul regolare andamento dell’attività amministrativa, benché, in concreto, le stesse avessero suscitato timori, come sostenuto dalle vittime in giudizio.
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